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Isole Fiji – Un popolo sorprendente

Quello che cent’anni fa era un feroce popolo di cannibali, si è trasformato nella più gentile, ospitale, sorridente, cordiale comunità umana della terra”.

E’ una storia lunga ovviamente, con un punto di partenza che gli archeologi non sanno ancora indicare con precisione. Forse diecimila anni fa, forse ottomila, forse soltanto tremila, quando le prime canoe di antichi melanesiani e polinesiani cominciarono ad approdare su queste coste coralline dopo aver attraversato le infinità oceaniche.

Cacciatori e raccoglitori prima, agricoltori e allevatori poi. Ogni villaggio aveva il suo capo, d’origine divina e dotato di poteri assoluti. Occupazione preferita la guerra, fra clan e clan, fra villaggio e villaggio, in una sequenza senza fine.

E per i nemici c’era poco da divertirsi, li mangiavano con raffinate variazioni di menu. Certe volte alla vittima, ancora viva, tagliavano la lingua, o una mano, o qualche altra parte del corpo (a buon intenditore poche parole…), la cuocevano e gliela facevano assaggiare per vedere se era di suo gusto. Poi avrebbero cucinato il resto. Oppure tiravano fuori un bel forchettone di legno da infilare nel cranio del nemico-pietanza, per estrargli un pezzo del cervello da degustare come appetizer. Un piatto veramente prelibato.

Le esplorazioni coloniali

Così, quando nel 1642 Abel Tasman si trovò a navigare fra Taveuni e Viti Levu con due vascelli della Dutch East India Company, le Fiji si conquistarono subito la fama di “isole dei cannibali” in tutta Europa. Era cominciata l’epoca delle grandi esplorazioni del Pacifico. Nel 1774 James Cook passò fra gli atolli di Lau e qualche anno più tardi, nel 1789, ecco il turno del capitano Bligh, appena abbandonato alla deriva dagli ammutinati del Bounty.

Sulla scia dei grandi esploratori, cominciarono ad approdare da queste parti i primi drappelli di europei, americani, australiani, neozelandesi. Una fauna variopinta, fatta di avventurieri e di contadini in fuga da un vecchio mondo devastato dalle carestie, di marinai pronti a ogni avventura e di capitani di navi balenieri, di missionari della London Missionari Society e di predicatori wesleyani, di trafficanti e di mercanti che avevano fiutato in anticipo il business del legno di sandalo, del cotone e della canna da zucchero.

Infine, il passaggio ufficiale sotto le bandiere di Sua Maestà britannica. La data è il 10 ottobre 1874 e così è stato fino al 1970, giorno dell’indipendenza. E intanto, con gli inglesi, arrivarono anche gli indiani. Serviva manodopera per le piantagioni di canna, e la gente delle Fiji non aveva alcuna intenzione di prestarsi al gioco. Così, il 14 maggio 1879, ecco sbarcare il Leonidas con a bordo i primi 463 immigrati provenienti da Calcutta. Altri 60 mila ne arrivarono nei trent’anni seguenti. Un esercito di coolies, ridotti a una sostanziale schiavitù, che hanno costruito sulla loro pelle lo sviluppo economico delle Fiji.

La politica

Oggi, a distanza di oltre un secolo, sono proprio gli indiani i padroni dell’economia locale: muovono commerci e investimenti, possiedono fabbriche e negozi, controllano banche e società agroindustriali.

Quando però hanno osato portare alla vittoria elettorale il loro partito, il National Federation Party, allora nell’arcipelago è successo l’iradiddio. Per la prima volta l’Alliance Party, il partito tradizionale degli abitanti originari delle Fiji, era stato buttato fuori dalla stanza dei bottoni. Un affronto intollerabile. Così, il 14 maggio 1987 il colonnello Sitiveni Rabuka mandò l’esercito a occupare il Parlamento. “Un golpe nel giardino dell’eden”, s’impaurirono i governi di Washington e di mezza Europa. Fine degli aiuti in valuta pregiata, condanna dell’Onu, sospensione dei collegamenti aerei internazionali.

E’ durato poco, perché già due mesi più tardi un governo civile fu incaricato di preparare nuove elezioni per il 1992. Ma è durato abbastanza perché fosse approvata una nuova Costituzione che garantisce agli abitanti originali delle Fiji la maggioranza in Parlamento: 36 dei 71 seggi spettano di diritto a loro, 22 agli indiani, 8 agli altri. Il golpe s’è rivelato per quello che era: un modo per ristabilire i vecchi ruoli, sanciti da una tradizione ormai secolare. Agli indiani le faccende dell’economia, ai nativi la politica, cioè il potere di decidere come vogliono vivere.

Le tradizioni del popolo

Gli abitanti “naturali”, i discendenti di antichi melanesiani e polinesiani, tirano avanti seguendo le stesse regole di sempre: l’autorità assoluta dei capi-villaggio, gli indissolubili legami familiari e di clan, il forte senso della comunità. Nelle città il traffico cresce di giorno in giorno, negli uffici si lavora col computer, le coste si riempiono di insediamenti turistici, ma loro continuano a vivere nei villaggi dell’interno, a ritrovarsi di tanto in tanto per il rito della kava, a mobilitarsi tutti insieme ogni volta che un singolo membro della comunità deve costruirsi una nuova casa o sposare la figlia.

La terra, nella maggior parte dell’arcipelago delle Fiji, appartiene ancora ai suoi abitanti originari. E, salvo casi particolari, non può essere ceduta. Così, quando qualche compagnia straniera vuole costruire un nuovo albergo, o quando uno dei tanti tour operator organizza un’escursione turistica in certe aree, sarà il villaggio sotto la cui giurisdizione ricade quella terra ad approvare o meno l’idea, e a riscuotere l’affitto o i diritti di transito.

Quella che si vede alle Fiji è una società che ha saputo trasferire nel presente gli stessi ritmi del passato e che, ormai persa la fama di guerrieri antropofagi, trasmette all’esterno solo segnali di quiete, di appagamento, di serenità. Una specie di arcadia, in perfetto equilibrio con la natura da cui è circondata.

Ne sanno qualcosa i rari viaggiatori stranieri che anziché puntare dritti verso la prima spiaggia, preferiscono dare un’occhiata dietro le quinte. Arrivano in un villaggio, portano qualche radice di yoqona in regalo al capo-comunità, e si ritrovano immersi in una gara di ospitalità che li costringe a fermarsi, magari solo qualche ora o qualche giorno, per partecipare ad un’esperienza di vita collettiva indimenticabile.

Sono in pochi a farlo. Per gli altri le Fiji restano un grande dépliant esotico tutto racchiuso nella formula spiaggia-mare-hotel. Contatti con i locali, minimi.

Ma proprio a quei pochi, invece, che si lasciano contagiare dalla magia del posto, le Fiji sanno regalare emozioni uniche. Forse è colpa della luce della luna, che brilla come un diamante sul mare, o forse è colpa del sorriso dei pescatori, o del profumo di curry che si perde nella brezza, o dei fantasmi che si sentono muoversi dentro alle vecchie case di legno. Oppure è proprio colpa di questa miscela di culture, di sangue, di caratteri lasciato da missionari e mercanti, da pirati e avventurieri che hanno finito per creare su queste isole una delle comunità più liberali e tolleranti dell’intero pianeta.

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